Il crac dell’istruzione

Più di un terzo della popolazione scolastica non è fornita di mezzi per accedere alla Didattica a distanza mentre docenti e alunni dovranno tornare in aule che dovranno garantire il rispetto di elevatissimi standard di sicurezza. Ma l’Italia è pronta?


L’epidemia da COVID-19 ha chiarito un fatto: per sopravvivere, l’Italia deve cambiare completamente. Non per sopravvivere al virus, ma a sé stessa. Presumo che il collasso del sistema sanitario sia abbastanza cristallino: non eravamo pronti per un’emergenza su larga scala.
Non sono altrettanto sicuro che sia evidente il crac del sistema scolastico, anche perché la narrazione della crisi, in tempo di crisi, è incline ad ammettere qualcosa per tacere qualcos’altro, a costo di fare violenza alla logica e al linguaggio: una matrioska di crisi, una dentro l’altra, potrebbe far credere che niente funzioni come dovrebbe.
In effetti, è esattamente così.

perché crac

Perché “crac” dell’istruzione? Perché come avviene per un crac finanziario, una gestione creativa dei conti da parte del MIUR ha ridotto ai minimi termini le condizioni di un sistema educativo che anziché espandersi si è via via contratto sia dal punto di vista economico che del valore assegnato allo stesso sistema. Un processo del tutto naturale: meno investimenti corrispondono a un minore riconoscimento di valore (dell’istruzione e della professionalità dei docenti), e d’altra parte la percezione pubblica della contrazione di un valore giustifica agli occhi della nazione il disinvestimento in quel determinato settore. Per semplificare: se si prende per mano il cittadino e gli si spiega che la scuola non è poi così importante, e che tutto sommato gli insegnanti sono degli scansafatiche pagati con i soldi delle sue tasche, allora sarà più facile operare dei tagli senza suscitare alcuna indignazione.

Razionalizzare la scuola: la ricetta del disastro

Dal tempo infausto di Letizia Moratti, c’è un termine preciso che annuncia le intenzioni non dichiarate di perseguire una politica di tagli all’istruzione e di mungitura dei docenti: razionalizzazione. Da Moratti in poi, passando per Gelmini, chi non ha pronunciato la parola “razionalizzazione” è stato congedato o si è dimesso (Fioramonti, in tempi recentissimi). Non dico che prima del ministro Moratti la scuola fosse un èden, tuttavia prendo quell’epoca come segnaposto in un’ipotetica storiografia del disastro: si iniziò a non bandire concorsi, e i docenti, per poter insegnare, anziché sostenere un esame, dovevano pagare milioni di lire, poi migliaia di euro, per diplomarsi a un corso di abilitazione all’insegnamento fasullo come le parrucche di Elton John.
Vuoi lavorare? Devi pagare, poi ti paghiamo noi ma non è detto.
Perché l’abilitazione non dava la garanzia di lavorare, ma la speranza.
Per strada, qualcuno ha trasfigurato il senso di “razionalizzazione”. Doveva significare rendere più adatto il sistema in rapporto alle esigenze, ma è stato degradato a un meno nobile tagliare: le spese, i docenti, gli scatti di carriera, persino il dialogo con i sindacati. Ogni spazio della scuola è stato mortificato, edifici compresi.

“Non ci sono soldi”

Si dice: non ci sono i soldi. Lo si ripete, e si ripete una menzogna. Ogni partito politico, in sede di campagna elettorale, fissa un programma con priorità e parole d’ordine. In misura più o meno marcata, in relazione a quanto sia importante per l’elettore bersaglio, che per giustizia linguistica chiameremo target, la scuola e l’istruzione figurano sempre tra le priorità. Da decenni si dà per scontato l’ovvio, cioè che la scuola italiana debba essere ripensata, ristrutturata, valorizzata, sicché lo si proclama a gran voce prima di ogni elezione. Discorso convincente, perché rispecchia la realtà: discorso conveniente, perché porta voti. Seppellita la Democrazia Cristiana, l’orientamento di voto dei docenti vale quanto valeva, anni fa, l’orientamento dei sacerdoti. O forse di più, perché i sacerdoti sono meno di cinquantamila e i docenti poco meno di un milione.
Tuttavia, il target elettorale meriterebbe più onestà intellettuale: i soldi ci sono, anche se pochi. A quel punto, spenderli per l’istruzione o – a titolo di esempio – per un piano di risanamento di un istituto bancario, è una scelta di allocazione delle risorse. Cioè minimizzare i costi a parità di beneficio o massimizzare il beneficio a parità di costi. Quindi, la seconda e più grave menzogna è che l’istruzione sia mai stata una priorità, perché al momento delle leggi finanziarie i tagli all’istruzione indicano al di là di ogni dubbio che si vuole conseguire la massimizzazione del beneficio aiutando l’istituto bancario dell’esempio. O investendo su qualunque altra cosa che non sia la scuola (né la ricerca, né la sanità). In sintesi, il beneficio promesso al target non coincide con l’idea reale di beneficio che alloggia nella testa di chi governa. Ma tra docenti e alunni si parla di quasi 10 milioni di persone, è meglio non dirlo ad alta voce. Qualcuno potrebbe prenderla male.
Tanto, gli italiani si abituano a tutto. E infatti si sono abituati all’idea che rubare a molti per non dare a nessuno sia in un progetto politico moralmente accettabile.

Due indicatori significativi

È necessario aggiungere qualche dettaglio sullo stipendio dei docenti e sulle condizioni degli edifici scolastici. Nel 2006-7, anni di proteste per via delle basse retribuzioni, lo stipendio iniziale di un docente neoassunto di scuola secondaria era mediamente di 1342 euro netti, per salire dopo 3 anni a più di 1400 euro netti. Nel 2020, un docente della secondaria di ruolo da ben 8 anni guadagna ancora poco più di 1400 euro netti. Tuttavia, il costo della vita è aumentato di più del 20%. Più indietro nel tempo, al passato remoto del ventennio fascista, un maestro guadagnava circa la metà di un senatore: attualmente, invece, meno di un decimo.
Gli edifici scolastici, d’altra parte, devono essere indistruttibili. Dev’essere questa l’idea che si sono fatti nella cittadella del MIUR: l’età media delle nostre scuole è di 57 anni, ma alcune sono ultracentenarie.

Il docente fannullone

Secondo la narrazione popolare, il docente è fannullone privilegiato, la sanguisuga della Pubblica Amministrazione che con un lavoro part time di 18 o 24 ore a settimana e tre mesi di vacanza guadagna giustamente meno di un vero lavoratore. Peccato, solo, che questo sia un orrore del senso comune. Un docente italiano lavora mediamente 40 ore a settimana. Un docente di scuola superiore ha 5 settimane di vacanza ogni anno. Il lavoro svolto in classe è meno della metà del lavoro complessivo, ma è la sola parte retribuita.

Dal 2020 ai secoli futuri

Nel 2020, in piena pandemia, le scuole chiudono. E improvvisamente riaprono con la didattica a distanza. Mossa azzardata che getta nello scompiglio docenti, studenti e famiglie. Perché sulla didattica a distanza nessun docente ha mai ricevuto la formazione specifica. La legge 107/2015, la “La Buona Scuola” di Renzi, prevedeva una formazione obbligatoria il cui compenso sarebbe stato oggetto di contrattazione con i sindacati.
Su cosa avrebbero dovuto aggiornarsi i docenti? Tra le urgenze figuravano le competenze informatiche e pedagogiche derivanti dall’impiego delle nuove tecnologie. La Didattica A Distanza, per esempio. Nel frattempo, se dicevi “DAD” si pensava a una lallazione ritardata.
Eppure, da sconosciuta, la DAD è diventata obbligatoria per le scuole, nei limiti delle competenze e degli strumenti in possesso dei docenti, obbligati con riserva, e senza alcun obbligo formalmente dichiarato per gli studenti. Dato che, per obbligarli, bisognerebbe prima assicurarsi che siano in possesso degli strumenti e delle conoscenze adeguate. Cosa impossibile, perché i requisiti per la didattica a distanza dovrebbero comprendere almeno il libero accesso a un computer e a una linea internet stabile, una videocamera e un microfono.

A questo punto, i fatti e la narrazione dei fatti sembrano riferirsi a due universi paralleli.

1. L’universo in cui tutto va per il meglio, l’istruzione è uno slogan e l’opera del MIUR un vanto per chi lo amministra, perché ha garantito il diritto allo studio a tutti, con l’eccezione di qualcuno.

2. L’universo in crisi, che comprende l’Italia in cui più di un terzo della popolazione scolastica non è fornita di mezzi per accedere alla DAD, e in cui a breve docenti e alunni torneranno in aule che dovranno garantire il rispetto di elevatissimi standard di sicurezza, a patto che nel frattempo non cadano a pezzi.

Non ci resta che scegliere in quale universo vivere.

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