Un esercito più snello e più letale: questa è la visione strategica delineata dal Segretario della Guerra degli Stati Uniti Pete Hegseth. La riforma punta a una ridefinizione culturale delle forze armate, considerate come una comunità distinta dalla società civile
Le riforme militari promosse durante la seconda Amministrazione Trump, guidate dal Segretario della Guerra Pete Hegseth, rappresentano uno dei capitoli più controversi della recente politica di difesa statunitense. Presentate come un tentativo di modernizzazione dell’apparato e di rafforzamento della capacità deterrente, esse hanno in realtà riaperto un dibattito profondo sul ruolo politico e simbolico delle forze armate. La revisione proposta da Hegseth, che intreccia trasformazioni organizzative, culturali e dottrinali, ha diviso analisti e vertici istituzionali, ponendo interrogativi sulla crescente politicizzazione dell’esercito e sulla ridefinizione del confine tra autorità civile e potere militare in un contesto segnato da rivalità globali e tensioni interne.
Esercito americano, la visione “Hegsethiana” e il rilancio della riforma militare
Nel discorso pronunciato il 30 settembre davanti ai vertici militari a Quantico, il segretario della difesa Pete Hegseth, rinominato Segretario della Guerra, ha riaffermato la necessità di forze più agili, letali e performanti. Con un ordine esecutivo del 25 settembre 2025 intitolato “Restoring the United States Department of War”, il presidente Trump ha formalizzato una delle mosse più emblematiche della sua politica di riforma militare. Il ripristino della denominazione storica “Department of War”, in luogo del più neutro “Department of Defense”, rappresenta un mutamento di prospettiva: non più un’istituzione concepita principalmente per la difesa nazionale, ma un apparato proiettato verso la riaffermazione della potenza americana in senso offensivo e deterrente. La scelta lessicale segna una ridefinizione strategica: il focus si sposta dalla mera difesa alla capacità di proiettare potenza e intimidire gli avversari, un’idea coerente con la filosofia della Comprehensive Transformation voluta da Hegseth.
Questo modulo riformista, avviato con il memorandum di maggio e sviluppato nei mesi successivi, trova ora la sua espressione integrata: trasformazione organizzativa, rinnovamento identitario e ridefinizione strategica della postura americana. Le intenzioni di Hegseth si articolano su tre pilastri fondamentali: l’esercito come vettore simbolico della potenza nazionale, la netta separazione dalla società civile come condizione di purezza valoriale, e il ritorno a una visione tradizionalista dell’azione militare: vincere guerre rapide con forza soverchiante tramite una deterrenza assoluta.
Esercito americano, l’obiettivo: peace through strength
Un documento anticipatorio del recente discorso tenuto a Quantico è il memorandum di maggio inviato da Hegseth ai vertici del Pentagono, nel quale venivano già delineati i principali assi di riforma: riduzione del numero degli ufficiali generali, razionalizzazione delle strutture centrali e cancellazione dei programmi considerati obsoleti. Tale testo, pur presentandosi come una direttiva amministrativa, conteneva in realtà le premesse di una più ampia trasformazione strategica, volta a snellire l’apparato e restituire all’esercito la capacità di proiettare forza in maniera rapida ed efficace. Nell’apertura del documento si fa riferimento a uno degli obiettivi cardine della politica estera di Donald Trump: assicurare il raggiungimento della pace attraverso la costruzione di un apparato militare forte e resiliente e anche tramite il suo potenziale dispiegamento rapido.
Peace through strength è un concetto che viene considerato un cardine della politica estera durante il secondo mandato di Donald Trump. Rafforzare le capacità di difesa dell’esercito, ma anche trasformarlo alla luce delle più grandi minacce del XXI secolo, sono azioni necessarie.
Esercito americano, il ripensamento della postura difensiva
Fatti come lo scoppio della guerra in Ucraina, l’emergere dell’Axis of Upheaval, la competizione strategica con la Cina e in generale gli interessi contrastanti sino-americani nella zona dell’Indo-Pacifico, hanno reso necessario un ripensamento della postura difensiva americana. In particolare, l’aumentare dell’instabilità ha imposto alla leadership statunitense di considerare l’esercito non solo come strumento di reazione immediata, ma come architrave di una strategia di lungo periodo, capace di garantire deterrenza e credibilità.
Le trasformazioni necessarie a garantire la prontezza operativa dell’esercito ruotano intorno a tre pilastri fondamentali. Il primo riguarda il ridimensionamento del personale dirigente, con tagli significativi al numero degli ufficiali superiori, inclusi quelli a quattro stelle. Secondo Hegseth, tale misura non mira a ridurre la consistenza numerica complessiva delle forze armate, bensì a sfoltire i ranghi più alti della catena di comando, compensando al contempo con un incremento delle truppe operative ai livelli inferiori. Un secondo pilastro è la cancellazione dei programmi ritenuti obsoleti o ridondanti, così da liberare risorse da reinvestire in settori più funzionali alle sfide del XXI secolo. Il terzo pilastro, strettamente connesso agli altri due, è il rinnovamento culturale dell’esercito: una trasformazione identitaria volta a recuperare l’“etica del guerriero”, rafforzare la disciplina interna e distinguere nettamente l’istituzione militare dal corpo civile.
La rinascita culturale dell’esercito americano
Sotto la seconda Amministrazione Trump, l’esercito americano ha vissuto trasformazioni significative, anche sul piano culturale. Un esempio è stato l’orientamento verso una maggiore enfasi sul rafforzamento delle forze armate, con ingenti aumenti di bilancio e l’introduzione di ordini esecutivi che hanno accelerato lo sviluppo di nuove tecnologie belliche. La sua Amministrazione ha però anche suscitato controversie in merito all’inclusione all’interno delle forze armate.
La decisione di Trump di vietare il servizio militare per le persone transgender, ad esempio, ha avuto un impatto culturale significativo, alimentando dibattiti sulla tolleranza e sull’inclusività. Sotto la presidenza Trump, infatti, la retorica militare americana ha preso una direzione marcata dal nazionalismo. Uno degli sviluppi più controversi è stato il cosiddetto DEI purge, un’iniziativa che ha portato alla rimozione o marginalizzazione di ufficiali e membri del personale militare legati a politiche di diversità, equità e inclusione (DEI). La retorica dietro questa purga era quella di liberare l’esercito da influenze “politiche” che, secondo Trump, minavano la coesione e la preparazione dell’esercito.
Esercito americano, il nodo dell’identificazione con una leadership autoritaria
Questa strategia ha avuto un impatto significativo, con critici che sostenevano che il purging dei leader orientati alla DEI non solo indebolisse la capacità di inclusività dell’esercito, ma mettesse a rischio anche la sicurezza nazionale, riducendo la diversità di pensiero all’interno delle forze armate. Questa visione ha contribuito a ridisegnare la cultura interna delle forze armate, spingendo alcuni a concentrarsi maggiormente sulla disciplina e sull’identificazione con una leadership autoritaria, mentre altri hanno sollevato preoccupazioni su un potenziale allontanamento dai valori tradizionali di inclusività e cooperazione.
Un ulteriore nodo critico riguarda il rapporto tra autorità presidenziale e relazioni civili-militari. La tradizione americana si fonda sulla supremazia civile, secondo cui le decisioni dei leader eletti prevalgono su quelle dell’apparato militare anche se controverse. L’uso estensivo e ambiguo dei poteri emergenziali da parte di Trump ha tuttavia indebolito tale equilibrio, rendendo labile il confine tra legalità e legittimità. Le mobilitazioni di truppe federali per gestire disordini interni hanno accentuato la distanza tra il diritto formale e l’etica politica, alimentando tensioni tra élite, opinione pubblica e corpo ufficiali. Pur restando intatta sul piano giuridico, la subordinazione militare al potere civile risulta oggi segnata da fratture simboliche e culturali che ne compromettono la neutralità.
Verso un esercito americano sempre più politicizzato
Diversi studi evidenziano come gli Stati Uniti non siano attualmente pronti per le future wars, non solo per carenze tecnologiche o organizzative, ma per una crisi interna che impone di adattare l’apparato difensivo ai nuovi contesti bellici. Il complesso militare del Paese attraversa infatti una fase di crisi politica e istituzionale, riconducibile a difficoltà di reclutamento e legittimazione sociale.
L’esercito statunitense è stato tradizionalmente garanzia di neutralità e professionalità, restando per anni tra le istituzioni pubbliche considerate più affidabili. Da anni però il fenomeno di politicizzazione delle forze armate statunitensi si sta tramutando da rischio latente in problematica concreta, manifestandosi come un problema emergente già sotto l’Amministrazione Biden e intensificatosi durante la presidenza Trump.
Risa Brooks su Foreign Affairs denuncia un progressivo scivolamento verso la subordinazione dell’esercito non più alla Costituzione, ma alle dinamiche partitiche, che minano la capacità decisionale autonoma dell’apparato militare. Secondo Brooks, già sotto la precedente Amministrazione la retorica politica ha iniziato a permeare contesti istituzionali militari, e cita come esempio l’inspiegabile presenza simbolica di Marines in uniforme durante un discorso elettorale del Presidente: un gesto letto come un primo cedimento della storica muraglia tra esercito e politica.
Esercito americano, la politicizzazione sempre più evidente con Trump
Durante il secondo mandato Trump, la politicizzazione è divenuta sempre più evidente. Episodi come la parata militare di Washington, definita da molti un “allarme autoritario”, e il discorso di Fort Bragg dai toni apertamente partigiani hanno infranto il principio di neutralità, trasformando l’esercito da garante dello Stato a potenziale attore nello scontro politico interno. Come osserva Brooks, tali dinamiche hanno progressivamente eroso la “parete etica” che separava la sfera militare da quella politica, minando la fiducia pubblica e la legittimità dell’istituzione.
In questo quadro, anche gesti apparentemente marginali, come il saluto militare compiuto da Donald Trump in numerose occasioni ufficiali, pur non avendo mai prestato servizio, assumono un significato simbolico rilevante: un atto che, sebbene formalmente giustificato dal suo ruolo di Commander-in-Chief, può essere letto come un segnale di appropriazione identitaria del linguaggio e dell’immaginario militare, rafforzando la percezione di una crescente fusione tra potere politico e retorica delle armi.
Le riforme volute da Trump e Hegseth hanno suscitato cautela ai vertici del Pentagono. Pur condividendo l’obiettivo di rafforzare la deterrenza, molti ufficiali hanno espresso riserve sulla deriva simbolico-ideologica delle misure, in particolare sul ripristino del Department of War e sulla separazione accentuata tra sfera civile e militare. L’ora Dipartimento della Guerra ha reagito con prudenza, applicando le direttive in modo graduale per salvaguardare l’equilibrio istituzionale e la tradizionale neutralità delle forze armate. Il ripristino di un corretto equilibrio tra potere civile e potere militare richiede oggi un processo di rifondazione istituzionale e culturale, volto a riaffermare la centralità dell’etica professionale e del principio di subordinazione costituzionale quale garanzia ultima della democrazia liberale.
Fonte Geopolitica

