Siamo pronti ad affrontare il futuro?

Stiamo pagando e pagheremo gli errori degli ultimi decenni: l’analisi giuridica di Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte costituzionale, sul “dopo Covid19”


L’emergenza finirà, deve finire. E potremo archiviare questo periodo di emergenza. Potremo dimenticare i dubbi costituzionali sulla limitazione alla libertà personale di cui abbiamo parlato con Antonio Baldassarre. Dovremo guardare avanti.
Lo sappiamo da più fonti: si sta lavorando da tempo al dopo, si stanno cercando gli strumenti economici, finanziari e sociali per la ripresa. Ma dal punto di vista giuridico e costituzionale come siamo messi? Il nostro sistema è adeguato, è pronto ad affrontare il momento di transizione e quello successivo, della ricostruzione?

«È la domanda del nostro futuro» dice Antonio Baldassarre. Il presidente emerito della Corte Costituzionale non ha dubbi sulle lacune del nostro sistema, che non è così pronto ad affrontare “il dopo”.

«Non abbiamo fatto, quando avremmo dovuto, le riforme che avrebbero migliorato il nostro sistema, anche senza cambiare l’attuale sistema parlamentare, ma rendendolo più efficiente. A differenza, ad esempio, della Germania, che ha fatto continue riforme costituzionali, aggiornando il proprio sistema ai tempi che cambiavano. Penso, ad esempio, alla creazione di un comitato con una composizione proporzionale alla forza reale dei vari partiti politici, che affianca il governo costantemente in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo.

«Questo non è mai stato fatto, né in passato né oggi. Né quando, ad esempio, c’era il terrorismo – si sono preferiti i rapporti personali. C’era allora Bufalini, uno dei leader principali del Partito Comunista che era amico di Andreotti: i rapporti tra Democrazia Cristiana, che era il partito di maggioranza, e il Pci, che era il principale partito di opposizione, si facevano nelle cene private di questi due personaggi. Si sono preferite vie informali alle vie formali e dunque all’adeguamento della Costituzione per far fronte a situazioni di difficoltà. È stato un errore che paghiamo tuttora e pagheremo ancora di più quando ci sarà il problema della ripartenza economica – perché quella sarà la vera prova».

È GIUSTO ESSERE PREOCCUPATI
DOBBIAMO AIUTARE LE PMI

«Questo fermo porta a conseguenze terribili sul piano economico: do ragione a chi oggi fa discorsi preoccupati. Pensiamo che il nostro tessuto economico è basato principalmente su aziende piccole e medie. Le grandi aziende devono solo ripartire e riprendere i rapporti consolidati: penso alle aziende di componentistica delle automobili, integrato con il sistema economico, che ripartirà in modo adeguato, non c’è bisogno di molto, se non di qualche prestito per riattivare gli investimenti. Ma la pmi – soprattutto la piccola – corre il rischio che possa vedersi chiusi i mercati. Questo perché non sono legami stabili con i mercati esteri: ci può essere stata un’azienda cinese che ha già occupato quel mercato, portando ad una chiusura di attività delle nostre realtà. Se non gli si dà un incentivo tale da poter ripartire con prezzi competitivi, queste aziende chiudono. L’economia italiana, basata sulle piccole e medie imprese, è quella che rischia più di tutte tra le varie economie occidentali. Ci deve essere un aiuto particolare e particolarmente forte».

IN ITALIA NON TROVIAMO MAI L’UNITÀ

«Purtroppo in tutta la storia italiana abbiamo visto che quando si tratta di avere una forte unità difficilmente la troviamo – a parte il periodo dell’immediato dopoguerra, che è stato un momento felice della nostra storia. E non è una questione di fazione politica. Penso agli anni del terrorismo, dove c’è stata qualche ambiguità che ha impedito una effettiva unità di azione. Il prossimo appuntamento richiede un’unità tra tutte le forze, altrimenti non è pensabile una ripresa effettiva della nostra economia. Se chi gestisce il potere si dimostra diviso, o comunque in polemica continua, è chiaro che questo crea sconcerto ed impedisce un’azione coerente in tutti i settori, considerando anche che la nostra è una nazione molto differenziata, a partire dal punto di vista giuridico – penso alle Regioni, che hanno anche colori diversi.

«Ci vuole necessariamente un’unità, che al momento non si manifesta, un po’ per l’arroganza di chi governa, un po’ per la non disponibilità di chi non governa a cercare di capire i problemi di chi non governa.
Questo è un dato preoccupante, che probabilmente porrà al Presidente della Repubblica il problema: se c’è una risposta adeguata, con un governo che rappresenta una maggioranza risicata come è l’attuale o se c’è bisogno di un governo di tipo diverso, che preveda un po’ tutte le principali forze politiche. Adesso non si sente, ma nel momento della ripresa potrà tornare tra le scelte del capo dello Stato, che avrà il compito più delicato: quello di garantire che ci sia una politica adeguata ad una ripresa proporzionata al disastro che ha prodotto questa situazione sanitaria.

«Tutto dipende dal grado di unità che si manifesterà: se nella situazione attuale, nonostante ci sia un Governo che rappresenta una maggioranza limitata, si crea un clima di collaborazione generale, si può andare benissimo anche con questo sistema. Se questo non si crea, allora a quel punto credo che il presidente della Repubblica qualcosa dovrà fare. Non può pensare che ci sia la ripresa del Paese in una situazione così divisa, non solo giuridicamente (la diversa rappresentazione politica delle regioni), ma anche economicamente (pensiamo al Sud). Non è pensabile che in un Paese di questo tipo ci possa essere una ripresa economica senza unità d’azione. Quindi: o l’unità viene assicurata nella situazione attuale, oppure il Presidente della Repubblica qualcosa dovrà fare».

SANITÀ E REGIONI
LA “SCIAGURATA” RIFORMA DEL 2001

Cosa, nella gestione dell’emergenza Covid19, ha funzionato e cosa no lo sapremo con certezza tra molto tempo. Ma c’è un dibattito che è stato affrontato fin dal primo minuto, e che continua a raccogliere risposte molto discordanti: la gestione del sistema sanitario nazionale. Deve rimanere in capo alle Regioni? O deve tornare totalmente allo Stato? O invece deve essere pensata una gestione congiunta?

«Si tratta di un problema che purtroppo nella storia del nostro Paese si è sempre manifestato, e mai è stato risolto. Sembra che gli italiani vadano più dietro all’emotività che non alla razionalità. Se vediamo la storia della sanità nel nostro Paese, siamo passati da una situazione in cui Stato e Regioni insieme gestivano la sanità – parlo dell’epoca dell’istituzione del servizio sanitario nazionale alla fine degli anni Settanta, tra l’altro promosse dalla sinistra, e delle leggi Bassanini. Poi sempre la sinistra, con la riforma del 2001, che io ho sempre considerato sciagurata, ha cambiato la Costituzione, e la sanità è passata alla competenza esclusiva delle regioni, salvo il restare a capo del potere centrale la fissazione degli standard minimi di assistenza. Adesso sempre dalla sinistra – perché è una discussione che occupa molto gli intellettuali giuridici che si qualificano essi stessi di sinistra – si dice che la sanità debba tornare totalmente allo Stato.
Questo dimostra che c’è una confusione generalizzata.

«Credo che la cosa migliore per la sanità fosse quella fatta all’inizio, di una competenza concorrente. Innanzitutto perché il potere centrale è più distante dalle situazioni locali, lo abbiamo visto anche durante l’emergenza. Penso alla Lombardia: si può parlare bene o male del Presidente della Regione, ma è un dato certo che aveva chiesto la chiusura 15/20 giorni prima di quando gli è stata accordata, perché vedeva realmente cosa stava succedendo, il dramma che si stava sviluppando. Ovviamente una zona rossa può essere fissata solo dal Governo – sarebbe in realtà dal Governo su delega del Parlamento, perché si tratta di libertà personali. Il Governo ci ha messo da 15 a 20 giorni a cedere alla sua richiesta.

«Un ministro della sanità non può sapere quello che succede in un ospedale di Canicattì o Lodi, perché non ha gli strumenti per saperlo. La cosa migliore è che ci sia una competenza concorrente, con lo stato che fissa i principi generali e una gestione che viene messa in capo alle Regioni, con il coordinamento dei poteri locali. Questa è la soluzione più razionale. È un’irrazionalità totale, che fa a pezzi le Regioni, pensare che siccome non ha funzionato una soluzione come l’attuale, esclusiva (che a me sembra criticabile), allora si debba tornare indietro di decenni e decenni, con uno Stato che gestisce la sanità da solo. Diventerebbe una gestione burocratica di cui sarebbe vittima il cittadino».

Nella foto di copertina: Futurpesci di Giacomo Balla (1924, tempera su carta applicata su tela, Collezione Biagiotti)

Paola Bottero
Paola Bottero
Piemontese di origini, calabrese d’adozione, romana per scelta, ama la legge, l'informazione e la comunicazione. Giornalista d’inchiesta per le principali testate nazionali, portavoce di diversi ministri, capo ufficio stampa di gruppi parlamentari e di diverse cariche istituzionali, autore di innumerevoli format, conduttrice radiofonica e televisiva, narratrice e sceneggiatrice, docente di comunicazione e informazione, crede nella forza delle parole che creano contaminazioni di valori e di percorsi, quando accompagnano fatti reali.

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