Quando gli eroi vengono costruiti in provetta

10 anni fa il suicidio in Tunisia del ventisettenne Mohammed Bouazizi, che si diede fuoco perché vessato da alcuni agenti di polizia. La sua protesta contro gli uomini è diventata simbolo – costruito a tavolino – della protesta contro il sistema


Le rivoluzioni, tutte, indistintamente, non sarebbero tali se non si agganciassero ad un episodio, vero, probabile o totalmente inventato, che ne accresca gli effetti mediatici. Aggettivo che non vale solo per l’oggi.

La Storia è piena di fatti o fatterelli che sono stati utilizzati dai registi delle rivoluzioni, coscienti che niente colpisce di più che un episodio caricato di un simbolismo che spesso non gli appartiene. Ovunque giriamo lo sguardo, di “eroi” di dubbia fondatezza storica ne individuiamo parecchi. 
Anche in casa nostra di esempi ce ne sono.

Giovan battista Petrasso “Balilla”

Forse il più eclatante è quello che, vero o presunto che sia, rimanda al 5 dicembre 1746, quando gli Austriaci furono scacciati da Genova. Una rivolta popolare, il cui innesco fu attribuito ad un sasso scagliato contro una pattuglia degli occupanti. Un fatto che accadde, ma forse anche no.
Fatto sta che solo un secolo più tardi si “scoprì” che a lanciare quella pietra fu un ragazzo. Identificato (si fa per dire) in Giovan Battista Perasso, il cui soprannome sarebbe stato Balilla, di cui il fascismo e la sua macchina propagandistica fecero uso copioso, nella continua ricerca di elementi per rinfocolare il sentimenti nazionalista. 

Ma se questa operazione “pubblicitaria” aveva un senso in epoche lontane (e nelle quali la conferma storica di fatti riferiti era impossibile o quasi), oggi appare quanto meno ambigua. Fermo restando il suo valore antropologico. Almeno laddove alcuni aspetti marginali di una cultura o di una tradizione diventano elementi di una narrazione costruita a tavolino per essere usata se e quando serve. 

le primavere arabe

Queste considerazioni, che si possono condividere o no, mi sembrano attuali anche in questi giorni in cui con enfasi, per come è giusto che sia, si sta celebrando la stagione di proteste popolari. Proteste in alcuni Paesi musulmani passate alla Storia come “primavere arabe”, forse con troppo entusiasmo, visto l’esito che hanno avuto.

Moti, ribellioni, spesso contraddistinte dal sangue di cui si sono macchiate le mani di coloro che, detentori del potere, non intendevano privarsene. Ma queste rivolte non sono nate nel giro di poco tempo. Sono infatti la conseguenza di anni ed anni di dittatura portati avanti anche grazie al sostegno dell’Occidente; sostegno motivato da una considerazione che forse non è “democratica”, ma rende omaggio alla politica pratica. E alla diplomazia più pragmatica, secondo cui è meglio tenersi un tiranno (in casa d’altri) di cui si conoscono pregi e (tanti) difetti, che non dare il potere ad una classe politica nata non sulle strade –  come una letteratura “rivoluzionaria” vuole accreditare -, ma in circoli abbastanza ristretti e non controllabili, capaci di saltare in sella al cavallo della rivolta se va nel senso che a loro fa comodo.

la scelta di Mohammed Bouazizi

Lo stesso episodio scatenante, nell’immaginario collettivo, delle “primavere arabe” rientra in questo schema. Parliamo di Mohammed Bouazizi. Il commerciante ventisettenne di Sidi Bouzid, in Tunisia, che si diede fuoco, morendo dopo giorni di agonia. La sua fine innescò le proteste che determinarono la caduta del dittatore Zine el Abidine Ben Ali. Perché per lui quel gesto estremo non aveva alcuna finalità “politica”, ma traduceva una sua ribellione a comportamenti che vedeva come vessatori. “Solo” verso lui e lui soltanto.

Quel giovane, morto tra sofferenze inumane, è stato come la pietruzza che genera la frana. Certo senza averne consapevolezza, e comunque con finalità totalmente personali. Ma gli eroi possono essere costruiti in provetta; concetto che in queste caso appartiene alla Rete dove tutto corre senza controllo. Anche da parte di chi della sicurezza delle fonti fa un punto d’orgoglio. 

il racconto di wikipedia

Così, ma è solo un esempio, forse il più comodo, come ha fatto Wikipedia di Mohammed Bouazizi. L’enciclopedia on line lo definisce “un attivista tunisino, divenuto simbolo delle sommosse popolari in Tunisia del 2010-2011 dopo essersi dato fuoco in segno di protesta per le condizioni economiche del suo Paese”. Niente di più falso, niente di più strumentale. Scritto con tutta evidenza di chi non conosce il Paese o, più in generale, il Nord Africa se non per quello che ha letto.

Falso, ma un’occasione magnifica ed a posteriori per dare alla Tunisia un eroe ed ad altri un esempio. Il giovane si uccise per protesta, certamente. Ma non per le condizioni economiche della Tunisia, bensì per le angherie che gli riservavano degli agenti di polizia. Categoria da sempre in odore di episodi quasi quotidiani di piccola estorsione ai danni dei più deboli. Che i vertici cercano di sradicare, ma che sono troppo radicate e non solo in Tunisia. 
Sostenere che Bouazizi si sia ucciso con il fuoco per protestare contro il governo salta, a pie’ pari, tutti gli studi che, soprattutto nel mondo arabo, sono stati fatti su questa scelta. Scelta che non è solo funzionale alla volontà di togliersi la vita, ma di farlo salendo ogni singolo gradino della sofferenza fisica. Il fuoco non è solo l’elemento che divora la carne, ma anche uno strumento di purificazione, del corpo e quindi dell’anima o di cosa resta, se resta, dopo la morte.

la creazione di un eroe a tavolino

Cosa di meglio, quindi, che creare a tavolino un personaggio che sia il compendio dell’estrema protesta con una delle più dolorose delle fini? Quella che viene definita morte per immolazione, ha detto la  psicologa algerina Malika Chougar, “è ancora più forte di un attentato suicida. L’attentato dà una  immediata. Col fuoco si passa per tutti i gradi dell’orrore. E’ una morte lenta o una sopravvivenza in uno stato atroce”

Ma c’è chi, come il sociologo algerino, Smain Laacher, dà una spiegazione politica di questo modo di togliersi la vita: “L’immolazione è un atto d’accusa contro il monopolio del potere pubblico e la sua onnipotenza. Quando non ci sono più interlocutori e un quadro legittimo dove fare valere le proprie ragioni e domandare la riparazione dei torti subiti, allora la morte diventa una scappatoia alla ripetizione senza fine dell’infelicità. Uccidersi con il fuoco è un atto politico. Perché, alla sua maniera, in modo drammatico e radicale, denuncia l’assurdità delle condizioni sociali”.

Un ragionamento molto interessante, che però non può essere sovrapposto a Mohammed Bouazizi. Il giovane non è stato certo un eroe. Ma per il suo modo di protestare – contro degli uomini, non contro il sistema – aveva il profilo migliore per assurgere ad icona di una rivoluzione con cui non aveva nulla da spartire. 

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