Brusca libero, quando la legge fa a pugni con la Giustizia

Libero dopo 25 anni. Giovanni Brusca, l’autore più di 150 omicidi, l’uomo che ha azionato il telecomando della strage di Capaci e ha ordinato l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, ha lasciato definitivamente il carcere. Per tutti i suoi delitti è stato condannato a innumerevoli ergastoli che si traducono in trent’anni di carcere, ridotti a 25 in virtù della norma che si applica a tutti i detenuti – 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati in cella – e adesso Brusca è legittimamente fuori.  Residuano quattro anni di libertà vigilata e da pentito rimane nel programma di protezione, ma salvo ulteriori reati in carcere non ci rientrerà più.

Così prevede la legge e Brusca è solo l’ultimo pentito della strage di Capaci a uscire. Prima di lui, hanno lasciato il carcere anche soggetti come Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, ma la polemica monta ugualmente. Con il nodo dell’ergastolo ostativo, che non prevede alcun tipo di sconto di pena o permesso premio per chi non abbia collaborato – bocciato dalla Cedu e da riformare per la Consulta – la scarcerazione di Brusca è bomba che deflagra nel dibattito politico – e paradossalmente scatena reazioni indignate fra quelle forze politiche più e più volte chiamate in causa per la stagione delle stragi – e colpisce e indigna i familiari delle vittime. 

un dibattito che appare strabico

Un dibattito che appare strabico, nel voler ostinatamente ignorare la requisitoria per il processo Trattativa in corso a Palermo e che già con la sentenza di primo grado ha iniziato a scrivere una pagina quanto meno imbarazzante per una democrazia moderna: apparati dello Stato hanno avuto un ruolo nella stagione delle stragi e si sono seduti a discutere con chi materialmente metteva le bombe. A quasi trent’anni di distanza residua però una domanda: per conto di chi? Tra le righe delle sentenze – di Palermo prima, di Reggio Calabria, con il processo ‘Ndrangheta stragista poi – una tesi c’è.

Da tempo ormai, i magistrati leggono quelle stragi come strumento non solo per ottenere benefici – a partire dalla cancellazione delle misure premiali per i pentiti – ma anche, se non soprattutto, come un pezzo strategia eversiva mirata a individuare, se non imporre un interlocutore politico affidabile in un momento di epocale cambiamento, mentre il muro di Berlino cadeva, gli assetti strategici internazionali cambiavano e il sistema della democrazia bloccata attorno all’asse Dc-Psi crollava sotto i colpi di Tangentopoli. Una strategia – e qui sta il tema centrale – elaborata e messa a terra non solo dalle mafie – ‘Ndrangheta inclusa, è stato accertato – ma da un sistema pancriminale di cui le mafie tutte hanno fatto parte, che tiene insieme settori della massoneria, della politica, della grande imprenditoria e dell’intelligence non solo nostrana. Il risultato – si legge nelle motivazioni delle sentenze di condanna messe nero su bianco dai giudici di Palermo e Reggio Calabria – è stato un gattopardesco cambio dello scenario politico, con Forza Italia che ha sostituito i partiti di riferimento della Prima Repubblica e tante, troppe divise – e forse toghe – che hanno scalato i ranghi degli apparati di Stato. Ma se l’intuizione investigativa c’è, i processi non ancora.

la rabbia e l’indignazione dei familiari delle vittime

Ed è questa verità ancora sottratta che scatena la rabbia e l’indignazione dei familiari delle vittime di quella stagione. «Sono indignata, lo Stato ci rema contro, noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Giovanni Brusca, l’uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero» dice Tina Montinaro, la vedova di Antonio Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone. E la sorella del giudice, Maria pur «umanamente addolorata» fa notare «questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso». E non solo perché in una prima fase, come lui stesso ha ammesso, il suo è stato un falso pentimento mirato a screditare l’antimafia.

«Brusca non ha detto tutto quello che sa»

Il punto chiave è un altro, dice Luciano Traina, ispettore in pensione della Polizia, fratello di Claudio, l’agente della scorta di Borsellino ucciso nella strage di via D’Amelio insieme al giudice antimafia e fra gli uomini che nel maggio del 1996 partecipò al blitz per l’arresto di Giovanni Brusca. «Credo che non abbia detto tutto quello che sa. Non ha parlato dei veri mandanti delle stragi, non ha parlato dei complici importanti all’interno dello Stato». A partire da quelli che hanno voluto proprio lui nella squadra che ha catturato il killer del fratello. «Mi distaccarono volutamente in quella squadra – racconta all’Adnkronos – Forse Brusca non doveva essere catturato vivo e qualcuno pensò che trovandomi davanti a lui, magari in preda alla rabbia, mi sarei tolto un sassolino dalla scarpa, sparandogli. Si sbagliarono». E dopo quel blitz, per lui un altro calvario. «Il questore La Barbera dispose il mio trasferimento – ricorda – Mi disse ‘per ragioni di sicurezza’». E tornano le ombre di una strategia troppo complessa perché si possa addebitare alla sola Cosa Nostra. Continuano a mancare i nomi, i volti, i protagonisti ed i colpevoli.

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