L’Italia e l’accoglienza, i tanti volti di una solidarietà che fa parte della nostra cultura

La lingua italiana è bellissima perché, senza strappi violenti o distorsioni, accetta che una parola nel tempo assuma un significato diverso, non opposto, ma dal profilo differente. Come ”accoglienza” che, secondo il Devoto-Oli della Società Dante Alighieri, significa ”L’azione e il modo di ricevere un visitatore o un ospite”, ma, se accostato a ”centro”, può diventare sinonimo di ”struttura destinata ad ospitare profughi, immigrati, vittime di catastrofi naturali e ad offrire loro una prima forma di assistenza”. Accoglienza, quindi, nella seconda accezione, come forma concreta di solidarietà, di come dare, a chi arriva chiedendolo, un aiuto che non è frutto di convenienza o strumentalizzazioni.In questi giorni il tema dell’accoglienza, di come essa viene data o concessa, è tornato d’attualità, e non per le ricorrenti notizie di profughi che arrivano sulle nostre coste chiedendo ospitalità. Ma parlare oggi della vicenda dell’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, sarebbe inopportuno, non tanto perché il tema è divisivo, quanto perché mai come ora devono parlare le carte e le relative risultanze e non le interpretazioni, lasciando da parte l’impatto emozionale che questa vicenda ha avuto. Ma forse è un’occasione per riflettere su come lo spirito dell’accoglienza – e non vorremmo schierarci automaticamente contro chi chiede all’Italia atteggiamenti muscolari che non appartengono alla cultura di gran parte del Paese – sia ben presente in noi, da molto tempo prima che l’immigrazione irregolare diventasse un problema. Da sempre l’Italia ha aperto le braccia a chi è arrivato in pace ed onestà. Non è quindi una cosa di cui sorprenderci oggi, in cui una certa propaganda ha portato molta gente a facili quanto pericolose equazioni (immigrato=delinquente; immigrato=ladro di lavoro; immigrato=untore). Eppure c’è stato un tempo in cui – alla fine degli anni ’90 –  la ”nostra” accoglienza era un esempio per molti Paesi.                                                        

arriva un bastimento carico, carico di disperati

Per paradossale che possa apparire, fu una tra le regioni italiane meno , la Calabria, a spalancare per prima le sue porte all’immigrazione non come gesto di un singolo, ma come moto spontaneo di famiglie intere o di tutto un paese. La sera del 27 dicembre del 1997 sulle coste dello Jonio calabrese, tra le spiagge di Soverato e Badolato, si arenò un barcone che, sulle porzioni della fiancate destinate al nome, aveva scritto ”Ararat”, che forse per le centinaia di persone ammassate come bestie sul ponte e nelle stive non significava nulla. Perché per loro il monte più alto della Turchia ha un altro nome che non quello usato nelle versioni ”occidentali” della bibbia. Per loro, che arrivavano dalle regioni curde, avrebbe dovuto chiamarsi Agiri, ma di certo non gli interessava il nome di quel bastimento, ma solo che li aveva sottratti all’inferno che si erano lasciati alle spalle per approdare ad un paradiso, forse non quello che cercavano, ma almeno era un inizio. Sull’Ararat c’erano 827 immigrati, per due terzi curdi. Era il 1997, ma sembrano un paio d’ere fa, perché non fu lo Stato a farsi totalmente carico dell’emergenza. O meglio, lo fece, ma fu la gente comune ad affrontare il problema di come aiutare quelle persone che, distrutte da una traversata per loro che il mare lo conoscevano solo per sentito dire, chiedevano semplicemente aiuto. E Badolato, un paese del basso catanzarese, noto un tempo per la bellezza del suo borgo medioevale, si trasformò in un laboratorio dove solidarietà e assistenza furono parte della soluzione.Lungo le stradine del borgo medioevale, con le sue case abbandonate dai proprietari (chi per essersi spostato nella frazione marina, chi perché a sua volta emigrato), le voci che cominciarono a risuonare non avevano l’accento cantilenante del soveratese, ma parlavano una lingua diversa e, miracolo, spesso – in un paese di vecchi – uscivano dalle bocche di bambini che sciamavano senza più la paura di vedere spuntare, da dietro un angolo o, peggio, dal cielo, l’Uomo nero. Un luogo dove la convivenza era un gesto d’amore verso il prossimo, ma anche l’ultimo appiglio per non vedere morire non una comunità (spostatasi in riva allo Jonio), ma la sua culla culturale. Qualche anno fa Mariella De Martino, presidente dell’associazione interculturale International House, definì così quell’esperimento: ”Badolato è stato il primo tentativo di dare una risposta al dramma dell’immigrazione che partisse da una analisi concreta dell’offerta e delle criticità del territorio”.  

gli immigrati che emigrano

L’accoglienza in Calabria ha avuto molte facce, perché gli amministratori locali o gli operatori della solidarietà hanno cercato di elaborare modelli originali che, talvolta, nel loro evolversi, cercando di adattarsi all’insorgenza di nuovi flussi di immigrazione irregolare, non hanno però saputo interpretare al meglio l’emergenza. Ma accogliere non significa ”adottare” o semplicemente ”assistere” ed è questo che  segna in modo differente il mondo complesso dell’accoglienza che ha cercato di stare al passo con l’aumento esponenziale dei numeri, ma anche con la diversa composizione dei ”carichi umani” in arrivo dalle coste nord africane, che ormai hanno sostituito la tratta mediorientale o quella anatolica. Quanto fatto a Riace (quali che saranno le determinazioni del tribunale chiamato a giudicare i comportamenti di Mimmo Lucano e degli altri imputati) ha dimostrato che, al di là di possibili distorsioni del sistema, è realistico pensare di potere coniugare accoglienza e convivenza, sempre a patto che agli immigrati vengano riconosciuti dignità e rispetto. D’altra parte le statistiche ufficiali (anche se non aggiornate in tempi recentissimi) confermano che a Riace si è tentato – anche se non sappiamo ancora come – di fare qualcosa di bello. Lo dicono gli oltre seimila immigrati transitati per il paese, provenienti da venti Stati. Mentre Mimmo Lucano, che Fortune nel 2016, inserì al 40/mo posto dei 50 leaders mondiali, aspetta di sapere quale sarà il suo destino, il suo modello resta da studiare, sempre che tutte le regole siano state rispettate.  Badolato, una volta esaurita la prima spinta emozionale, ha proseguito lungo questa strada e, sebbene di famiglie di immigrati non ne siano rimaste molte, ha rivendicato, davanti allo scetticismo di molti, una sua specificità. Una comunità che non rinuncia alle sue radici, ma che è disposta a farne partecipi anche persone che parlano una lingua diversa, hanno differenti abitudini e, ma questo è secondario, pregano un Dio diverso.A Badolato il concetto di accoglienza non si è fermato, andando oltre le soglie della vita terrena. Lo raccontano alcune delle tombe nel piccolo cimitero del paese. Due accolgono bimbi curdi; uno morto dopo un’agonia di sette giorni, nell’ospedale di Locri, causata da una gravissima disidratazione; l’altro arrivato senza vita, stretto al seno della madre, che lo ha voluto tenere con sé sino a quando il barcone non è arrivato a riva, nella locride. Nello stesso cimitero sono stati sistemate le spoglie di due ragazzi, forse etiopi, di cui ancora oggi non si conosce l’identità e che per tutti sono solo le cifre che sono state incise sulla tomba. Daniela Trapasso, assessore alle Politiche sociali, parlando delle tombe senza nome, ha detto: ”per noi non sono numeri, ma una sconfitta dell’umanità”. Chi salva una vita salva il mondo intero, si legge nel Talmud. La Badolato di oggi non è quella di un tempo. L’accoglienza sembra essere un capitolo che, prima ricco di pagine, ora, col passare degli anni, si sta riducendo ad un opuscolo, seppure bellissimo, perché gli emigrati hanno ripreso i fili della trama del loro sogno originario e hanno lasciato il paese per raggiungere la loro vera destinazione, la Germania, dove la comunità curda è molto presente. Badolato, ha scritto la fotografa Mariagrazia De Siena, a corredo dei bellissimi scatti di un suo servizio, ”rivive una nuova emigrazione: questa volta ad emigrare sono gli immigrati”. 

il “brodo primordiale” dell’accoglienza in Calabria 

La Calabria, quindi, cosciente di essere una terra di transito, non ha sempre accettato questo modello, anche se era abbastanza chiaro, sin dagli esordi degli anni Duemila, che l’accoglienza non poteva essere sovrapposta alla burocrazia, che, ieri come oggi, ha regole abbastanza chiare, anche se, come nel caso dei rimpatri, spesso nei fatti inefficaci.Chi, irregolare, arriva e chiede di avere riconosciuto lo status di rifugiato o di richiedente asilo, deve affrontare una lunga trafila per definire la sua posizione. Un percorso burocratico faticoso e complesso e che spesso entra in rotta di collisione con il buonsenso. Tornando al presente, c’è qualche difficoltà a capire come giovani che arrivano da una zona di guerra (ad esempio il Mali, dove gli jihadisti si distinguono per ferocia) e che, in Italia, in attesa di un riconoscimento formale e comunque con un permesso sia pure temporaneo, aspettano anni per vedere regolarizzata la loro condizione. Anche se, in alcune zone del Paese (in Campania e Lazio, ad esempio), loro contribuiscono a mandare avanti l’agricoltura. Ma, per la verità, non sono questi ragazzi ad essere un problema. Magari sono altri che vengono in Italia ben sapendo che il loro ruolo sarà quello di ingrossare le file di organizzazioni paramafiose, dedite al traffico di droga e di esseri umani. Poi c’è il fenomeno tutto particolare dei tunisini, che ormai arrivano in massa pur provenendo da un Paese che non vive una situazione di guerra (la rivoluzione dei gelsomini risale a più di dieci anni fa) e peraltro si è impegnato con l’Italia (che per questo ha ”pagato”, con massicce forniture anche di armamenti) a frenare le partenze. Ma com’era la situazione dell’accoglienza nella Calabria di vent’anni fa?Ecco quel che si legge in uno studio dell’Università della Calabria, ”Inserimento socio-economico dei richiedenti asilo e rifugiati in Calabria”, a cura di Elisabetta della Corte: ”Nonostante sia elevato il numero dei richiedenti asilo in Calabria, le tracce della loro presenza sul territorio regionale sono flebili. La regione si caratterizza, prevalentemente, come terra di transito; la maggior parte dei richiedenti vi resta il tempo necessario all’identificazione e all’espletamento delle pratiche burocratiche per l’asilo nel centro di prima accoglienza di S. Anna sito a pochi chilometri da Isola Capo Rizzuto. Il tempo d’attesa, è in media di 20 giorni che possono diventare 30 o 45 nel caso in cui mancano i documenti o si registrano irregolarità”. Quei numeri, i giorni d’attesa per l’espletamento delle procedure di identificazione si sono forse accorciati, ma con esiti uguali. Una volta usciti dal circuito burocratico, la maggior parte degli immigrati si fa inghiottire dalle grandi città, spesso (ma di certo non sempre) cadendo nelle mani di sfruttatori, che sono le reti di spacciatori, ma anche chi paga il loro lavoro per pochi euro all’ora, trattandoli appena un gradino sopra quello degli schiavi. 

i numeri che non mentono

I modi in cui l’accoglienza viene declinata in Italia variano in modo anche apparentemente sorprendente perché le regioni di primo approdo non diventano mai quelle dove i migranti decidono di restare. Si potrebbe dire che è una scelta scontata, considerato che i barconi che arrivano dal nord Africa come da Est per motivi logistici attraccano al sud, dove non è che la ricchezza si manifesta in modo evidente. Quindi Sicilia e Calabria diventano una immensa fermata dove si aspetta metaforicamente l’autobus diretto al Nord o, meglio ancora, ai confini dell’Italia nella speranza di poterli attraversare e raggiungere quelle località dove l’appartenenza ad una nazionalità è un lasciapassare. Ma questo non significa che l’Italia non si continui a spendere per offrire assistenza od ospitalità. Nel 2020, secondo le statistiche ufficiali, quasi ottantamila immigrati (79.938 per l’esattezza) hanno goduto di accoglienza. Di questi (in maggioranza tunisini) più del 10 per cento (10.491) sono stati accolti in Lombardia; 8392 in Emilia Romagna; 7491 nel Lazio. Numeri importanti, che certificano come il ”sistema Italia”, nella sua generalità, non  sia insensibile alle tematiche dell’immigrazione, che sono interpretate a seconda delle singole sensibilità o, come spesso accade, in base alle convenienze politiche, sulle quali si sono elaborate delle strategie che hanno cercato di abbandonare le rozzezze di un tempo. Come quell’europarlamentare leghista (in un’epoca, qualche anno fa,  in cui l’ipotesi di una pandemia era materia solo di libri di fantascienza) che, sotto l’occhio delle telecamere, disinfettava i posti che, su bus e treni, erano stati occupati poco prima da immigrati di colore. Ma non per questo tali eccessi sono meno indicativi dell’esistenza di un problema di rapporti con il diverso da strumentalizzare – non solo in Italia: basta guardare quel che accade in Grecia e Germania – sapendo che possono essere moltiplicatori di consenso e, quindi, catalizzatori di nuovi voti. La tragedia non ha latitudini prestabilite, si muore per mare o cercando di passare in inverno un fiume ghiacciato nei Balcani o dando l’assalto ad una lunga inferriata su cui vegliano non agenti, ma soldati armati come per andare in guerra. Il resto del mondo ”ricco”, che riesce sempre a essere distaccato quando le cose non lo riguardano direttamente, vede l’immigrazione come se fosse un fenomeno che riguarda solo le parti interessate: i Paesi di partenza, quelli di transito, quelli di primo arrivo, la destinazione ambita e sognata. Ma è una visione miope che, come il sole all’uscita di un lungo tunnel buio, rischia di accecare.  

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